lunedì 13 giugno 2016

Gildo il minatore e le disobbedienze




L'America che purtroppo in queste ore si angoscia per le gesta di un musulmano, autore della strage di gay in Florida, è la stessa che appena due giorni prima in gran parte aveva omaggiato la memoria di un altro musulmano. E tramite l'America, lo stesso ha fatto gran parte del restante mondo.

“Addio Alì, ci resta la tua libertà. A Louisville pregano tutte le religioni”. Così titolava il principale giornale italiano all'indomani del funerali di Mohammed Alì. Dopo lunghi anni di malattia, il più grande pugile di tutti i tempi se ne è andato tra due ali di stima universale: un personaggio-simbolo, il cui gradimento fa guardare in cagnesco all'opinione pubblica chiunque obietti sul suo spessore.

Muore da eroe conformista, ma in realtà Cassius Clay si era imposto all'attenzione proprio per aver scelto di essere assolutamente controcorrente. Rifiutandosi di andare in guerra, affermando che “nessun vietcong mi ha mai chiamato negro”, aveva straordinariamente precorso i tempi rispetto ad un 'senso comune' che avrebbe poi persuaso la società in cui viviamo nei decenni successivi: sia in merito all'inutilità di quella guerra, sia alla repulsione per ogni discriminazione razziale. Anche se, ahinoi, a tutt'oggi il senso comune non è stato sufficiente a spazzar via dalla terra né le guerre, né il razzismo.

All'epoca, quel pugile apparve all'America (al mondo) clamorosamente fuorilegge, e quindi eccessivo: in realtà quel suo strappo fu importante per il progresso del nostro mondo almeno quanto lo furono per la storia della boxe i suoi titoli conquistati sul ring (il che, è tutto dire). Ma all'epoca, il mondo non se ne capacitava.

Non è la prima volta che uno strappo temerario o (apparentemente) sprezzante alle regole del vivere civile si rivela linfa primaria per quello stesso saper vivere in collettività. E' solo un caso (o forse no?) che in questi giorni mi sia trovato a leggere la storia del minatore Gildo Andreoni, dichiarato (ampiamente) post mortem “Giusto tra le nazioni” per aver salvato degli innocenti rischiando la propria vita, sotto il Nazismo. E accanto alla sua, la vicenda di Don Lorenzo Milani: della sua lettera ai cappellani militari (1965) in cui difendeva quelli che erano disposti a sacrificare la propria libertà pur di non compartecipare ad inutili massacri. Una lettera seguita dalla pubblica indignazione e denuncia penale, e dal processo (vinto e poi riperso in appello, dopo che la malattia l'aveva nel frattempo spento).

La storia ha dimostrato che quel 'giusto' era giusto già allora, pur se indisciplinato rispetto all'ordine del suo tempo. E il senso comune, nei decenni successivi al tempo di Milani si è poi appropriato dell'obiezione di coscienza, al punto da trasformarlo in quel 'servizio civile' che ha preso il posto della leva obbligatoria.

Se Alì, Andreoni e Milani non avessero 'disobbedito' oggi non sarebbero ricordati per quel che sono stati. E il nostro mondo sarebbe ancora più ingiusto di ciò che è.

Se tutto ciò fa 'giurisprudenza morale', teoricamente allora qualsiasi precetto normativo può essere messo in discussione. Una deduzione che è un terremoto per chi come me crede nel valore delle regole condivise, nel “darsi dei limiti per godere della libertà”. Anche in questo caso, forse, 'in media stat virtus': ma dove cada la linea mediana è evidentemente questione aperta. Secondo Milani, quando le regole diventano aberrazione dei valori umani, o spirituali che dir sì voglia. E allora, per esempio: è aberrazione il fisco che chiede le tasse ma non rispetta lo Statuto del contribuente? Lo è la procedura di accoglienza per un profugo prevista nel continente europeo?

Questioni molto aperte. Intanto io dico grazie per ciò che quelle tre persone mi hanno trasmesso, seppure in tempi e con sfumature diverse. E anche a chi me le ha fatto conoscere. Buon ultimo, Paolo Bartalini che con le sue “Rime del buon pane” mi ha portato a scoprire la vicenda di Milani.

lunedì 23 maggio 2016

Las locas


"La pazza", Giacomo Balla

“In questa vicenda la cosa più interessante eravamo noi”. Parla di donne, Norma Berti. Di chi come lei e con lei coabitò (spesso, fino a morirvi) la desaparicion durante l'ultima dittatura argentina, tra il '76 e l'83. Ha scritto un libro, “Donne ai tempi dell'Impunità”. E quel libro è lo spunto colto da Anmesty international per riproporre la memoria di quei fatti in una sala di biblioteca di un Paese apparentemente molto lontano, ovvero l'Italia.
Devo averlo già fatto mille volte; ma a chi l'ascolta in quella sala la Berti racconta, dilungandosi, di sparizioni; di privazioni, di violenze, torture. Anche se non scende in particolari, perché non è questo che le interessa: “qualche anno fa una trasmissione tv italiana, I fatti vostri, mi chiese di intervenire come ospite. Mi fecero capire che a loro interessava sviscerare le modalità con cui eravamo state torturate. Obiettai che non avrebbe avuto senso un intervento di questo tipo senza dire un minimo di parole sul contesto in cui questo si verificava. Non mi chiamarono più”.

Qualcuno in sala le chiede com'era stato possibile che ciò avvenisse: “il golpe cominciò il 24 marzo 1976. Ma era stato preparato da tempo. Il 70 per cento dei desaparecidos fu fatto sparire nei primi tre mesi. Sapevano con esattezza dove volevano colpire. All'inizio furono favoriti dall'impressione diffusa in molta opinione pubblica, per la quale l'intervento dei militari tutto sommato poteva servire per mettere ordine nella guerra 'sucia' che si stava trascinando tra ala sinistra e ala destra del peronismo. Poi la propaganda fece la sua parte, facendo leva anche sui mondiali di calcio. Ci volle la guerra delle Malvinas, ovvero l'implosione dei dittatori su loro stessi, per porre fine a quel periodo. Nel frattempo erano cominciati gli anni '80, gli anni del riflusso dalla politica. E quando la maggior parte di noi sopravvissute torno a riprender contatti con la società argentina, non si raccapezzò più”.

Quelle donne sopravvissute, secondo Norma Berti, sono la parte migliore della vicenda golpista. Per ciò che s'inventavano nei campi di detenzione per sopravvivere, non impazzire, non cedere alla delazione. E per ciò che quelle che erano rimaste fuori inventarono. per logorare lentamente ma in modo micidiale il regime. Quelle che erano rimaste fuori, ovvero le madri di plaza de mayo. Quelle come Vera Vigevani, che in quella stessa sala di Biblioteca aveva testimoniato otto anni fa; e me lo ricordo bene. “Las locas”, quelle pazze – come venivano definite – che di giovedì in giovedì annientarono l'indicibile violenza. Senza violenza.

 La sala che ascolta non è colma; ma ci sono volti giovani, più di quanti ce ne fossero nel 2008; e chissà che tra questi  non ci sia qualcuno che all'epoca ascoltò Vera come maturando del Liceo Galilei.. Sul finire, accanto a me si siede una ragazza bellissima, abbigliamento casuale e trucco curato. Ha l'aria di attendere quel che di questo venerdì sera seguirà; ma intanto nobilita la platea, e ciò che questa ascolta magari nobiliterà lei. Chissà se il seme della determinazione di quelle "pazze" passerà di mano in queste fresche  menti, da stasera.

Qual'è il posto di questi argomenti nell'Argentina attuale, ho chiesto sul finire dell'incontro? E' un posto non ben identificato. Così mi ha detto la Berti: “nel 2003 Nestor Kirckner fu il primo Presidente ad ammettere ufficialmente le colpe dello Stato, vent'anni dopo quei fatti. Negli anni seguenti i diritti umani sono diventati materia di studio diffusa nelle scuole e alle università. Molti luoghi di detenzione sono stati convertiti in luoghi della memoria. Questo, fino al 2015. Dal subentro di Macrì alla Presidenta Cristina Kirckner sono state azzerate le sovvenzioni alle associazioni per i diritti umani. Due ex militari collusi con la dittatura sono stati nominati alti gerenti della compagnia aerea di bandiera. Non so se ho risposto alla sua domanda...”

sabato 9 aprile 2016

Klusium, gli etruschi e i colori della mente




Cosa si trova, andando per etruschi sottoterra intorno a Chiusi, nel 2016?

Il colore: quello che si vede, ma soprattutto quello che s'intravede o s'immagina. Con tutto quello che uno si può portare in testa su questo popolo, residuo di studi scolastici o di approfondimenti successivi, ciò che affascina tornando 'sul posto' a distanza magari di tanti anni – o per la prima volta - è proprio questo. Ciò che gli occhi permettono di favoleggiare in termini di bellezza ed espressività. 

Accade facendo il giro della tomba della Scimmia, quella del Leone, della Pellegrina e del Colle. Ovvero delle 4 tombe attualmente aperte al pubblico intorno all'antica Klusium, in attesa di farlo in quella scoperta lo scorso febbraio a Poggio Renzo.. La prima e la terza, in particolare, restituiscono mirabili decorazioni a distanza di forse 2500 anni. I colori di atleti, di cavalli e del paradisiaco giardino, tutt'oggi ammirabili nella Pellegrina, sono più sgargianti, forse anche troppo: effetto del ritocco effettuato con l'intervento di restauro del XIX ° secolo. Più tenui nella tomba della Scimmia le tonalità di bighe, cavalli, pugilatori; e dello stesso animale cui il sito si riferisce, quello che lo scopritore François riuscì ad intravedere quanto basta per dedicarle il nome in epoca moderna. Colori percettibili a sufficienza per capacitarsi di quanto furono abili al tempo, oltretutto dotati di una gamma di tonalità ben meno ampia e artefatta della nostra epoca.






In realtà, la valenza del lavoro etrusco sul colore la si apprezza soprattutto immaginandolo, quand'esso in realtà non si fa vedere. All'interno del museo Archeologico di Chiusi sono numerose le urne cinerarie: si pongono agli occhi del visitatore nel chiaro e monotono colore della pietra che le compone, e che i millenni hanno rimesso a nudo. Solo un paio di esse conservano sprazzi di rosso e di altre vivaci tonalità. Ed è solo quando arrivi ad osservare quelle due che l'occhio attiva la mente al punto tale da fargli immaginare il lavoro compiuto, così come doveva essere nella sua interezza al tempo etrusco. E come, per assioma, dovevano essere quelle tombe, appena sigillate: un tripudio di colori. Emozioni che oggi non vediamo più, ma che il tempo, la storia, l'archeologia (e la salute di chi osserva) consentono di immaginare e godere. 




L'essenza di una giornata nella Chiusi antica è tutta qui, e se è possibile apprezzarla a pieno è anche grazie alla genuina passione che le guide deputate all'apertura e illustrazione delle tombe evidenziano con coinvolgente ingenuità. A corollario, di sicuro interesse la cattedrale, il labirinto di Porsenna, il percorso sotterraneo che si snoda sotto il Museo Civico. 

Per ragioni conservative, gli accessi alle tombe sono centellinati, ed è inibito scattare fotografie ai dipinti. In sostituzione, ecco una riproduzione video 3D pubbliamente disponibile su youtube, realizzata da 3domfbk:


lunedì 31 agosto 2015

Addentare le nuvole

Questa è la storia di un percorso verso la memoria che parte da una sala d'aspetto e arriva sulle vette più alte delle Dolomiti.

La sala d'aspetto è quella di uno studio dentistico, dove nell'inverno 2015 giacciono alcune riviste illustrate. Tra queste un arretrato di pochi mesi del mensile Bell'Italia: al suo interno il reportage fotografico da un museo 'tra le nuvole', creato per volere dell'alpinista Reinhold Messner in Veneto, sulla sommità del monte Rite (2183 metri) fino a quel momento a me sconosciuto. I pochi minuti che precedono un'otturazione sono sufficienti per accendermi una curiosità, che altre due visite alla dentista nel giro dei 4-5 mesi successivi (con relativi ripassi del giornale) trasformeranno in volontà. Quelle altane in vetro, protese verso un angolo giro di inimitabili vette, fanno correre il mio pensiero a due persone vicine quanto care, alle quali tutto ciò potrebbe risultare nuovo o affascinante. E quindi, meritorio di visita.





L'atipica agenda della mia estate 2015 trova spazio a metà luglio per un 'blitz' di quattro giorni nel Cadore. Imprevisti e lieti eventi mettono in forse il tutto pochi giorni prima, ma l'annullamento si trasforma in slittamento di poco più di un mese. E' così, poco dopo Ferragosto, il Monte Rite ci accoglie a metà di una mattina dal cielo variabile quanto intrigante. Con me, un over 70 ben portati, ed un 'cittino' pimpante di 10 anni scarsi, inebriati dal blitz per motivi diversi ma complementari.

Guadagniamo la vetta tramite una navetta attiva due volte all'ora con partenza dal passo Cibiana, difronte al Rifugio Remauro, quota 15530, che è anche la nostra base per un egregio vitto (lo strudel fatto in casa, su tutti) e alloggio. Giunti sul posto a metà del pomeriggio precedente, eravamo stati tentati dall'idea di anticipare il programma, idea vanificata (provvidenzialmente: avremmo fatto troppo in fretta) da un ritardo nell'ultima corsa della navetta. A causarla, l'improvvisa venuta al museo da parte del suo inventore, Reinhold Messner appunto. L'indomani, quando finalmente arriviamo a destinazione, di  lui restano solo le tracce non invasive che qua è là affiorano nel percorso espositivo, in forma di testimonianze scritte.



 Il Messner Montain Museum Dolomite è infatti tutt'altro che un luogo di autocelebrazione. Esteso lungo la galleria di quello che fu un forte militare della Grande Guerra, espone soprattutto volti, scritti e strumenti di altri personaggi. Gente la cui esistenza ha trovato senso sulle Dolomiti come l'antesignano Dolomieu, gli scalatori Comici e Benatti, i soldati che qui intorno combatterono e le donne che li attendevano trepidanti a valle.






Suggestive per l'architettura, oltre che per la visuale offerta, sono le tre altane panoramiche ricavate laddove alloggiavano armi pesanti in tempo di guerra. Una sorta di antipasto per ciò di cui lo sguardo può godere salendo sulla copertura in cemento della struttura, e spaziando nel restante perimetro percorribile della vetta di Monte Rite: Il Monte Pelmo, il Civetta, San Vito, Cortina e gli altri abitati a valle nel Cadore, il Sassolungo di Cibiana.


 L'entusiasmo per la veduta è altissimo, addirittura quasi fatale: l'affaccio verso nord est coincide con uno strapiombo chilometrico, senza protezioni. Obiettivamente un pericolo per distratti o sofferenti di vertigini. Unica sbavatura, mi pare, in una realizzazione lodevole se non altro per la velocità (4 anni) con cui è diventata realtà.




Ripenso a quel giorno in sala d'aspetto dalla dentista. A quella prima impressione, che ora vedo confermata: di per sé il Museo  nelle nuvole, uno dei sei ideati da Messner, non varrebbe il viaggio. Ma in realtà è un espediente, un ideale lasciapassare verso un'esperienza che è davvero notevole. Che oltre a quanto già detto, include la calda atmosfera del Rifugio in quota (il Dolomite) dove gustare pastin con polenta e funghi,conoscere cordiali compagni di escursione, far divertire i bambini con un simpatico concorso di disegni su tovaglietta;  i 7 km di camminata tra la vetta e la base, che noi percorriamo a scendere senza sosta ma senza fretta in un'ora e mezzo; la mandria di yak che pascola libera a pochi metri dai passanti; le svariate possibilità di visita dei dintorni che può aprirti un soggiorno in zona di almeno un paio di giorni. Nel caso nostro, verso Cibiana, San Vito, Selva di Cadore e ascendendo ancora più in alto, sulla Marmolada.  Scoprendo altre memorie inattese e dense di significato.


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